sabato 20 marzo 2010

L'ostetrica scalza e i figli dello Tsunami- intervista del 2007


Lei fa la pace "un bambino alla volta". La motivazione per cui le è stato attribuito l'anno scorso il premio internazionale Alexander Langer affonda proprio in questa ragione: Ibu Robin Lim non è solo un'ostetrica, ma una testimonianza forte di vita non violenta e di pace. La sua è una storia singolare sin dalle origini, una vera e propria mappa geografica, che colora il suo sangue di Indonesia, Cina, Filippine, Germania, Irlanda. Nata nell'Iowa, negli Stati Uniti, da madre asiatica e padre americano, nel 1992 decide di trasferirsi con il marito a Bali, dove nasce il suo settimo figlio. Ma è soprattutto la nonna filippina, levatrice professionale, che in sogno la spinge a diventare ostetrica. Un mestiere che risponde a un grande bisogno: assicurare alle partorienti un travaglio sicuro e rispettoso in un ambiente dove la sanità è un lusso. Dopo aver conseguito il diploma negli Stati Uniti, Ibu Robin Lim inizia a operare intessendo le conoscenze mediche alle tradizioni antiche, convinta che garantendo una nascita gentile è possibile sperare in una società più pacifica. Nasce così nel 1994 a Bali l'associazione no profit "Bumi Sehat", che significa Terra Madre, un consultorio per madri e famiglie, dove è possibile avere, secondo alti standard internazionali, assistenza prenatale, durante il parto e post natale, sostegno all'allattamento al seno e imparare la pianificazione familiare naturale. Unico centro in Indonesia che si occupa di nascita naturale, solo nel 2007 ha aiutato circa 500 mamme ad avere un parto senza paura.
Un impegno che non è venuto meno neppure durante l'immane disastro di tre anni fa: alla distruzione dello tsunami Ibu Robin Lim, la sua famiglia e il suo staff hanno risposto andando subito a Banda Aceh, a nord di Sumatra e vicinissima all'epicentro del sisma, dove in pochi minuti è morto il 70 per cento della popolazione. E anche in quella desolazione i bambini hanno continuato a nascere, tantissimi prematuramente. Spente le luci sulla tragedia, esaurito il denaro, oggi restano i traumi. I sopravvissuti hanno perso in media dodici persone della cerchia familiare e parlare di ricostruzione è un eufemismo. Oggi da quella tenda impiantata sul suolo di Aceh è sorto un centro sanitario, fatto con i legni galleggianti, unici resti delle case distrutte, che funge anche da luogo d'incontro per bambini, donne, anziani, vedovi, mentre a Bali, dopo gli attentati terroristici del 2002 e del 2005, è nato un centro giovanile accanto al consultorio, dove i ragazzi possono imparare inglese e informatica.
A Verona l'"ostetrica scalza", è stata ospite del XXII congresso nazionale del Movimento nonviolento, dove ha presentato il suo primo libro tradotto in italiano, Dopo la nascita del bambino, per la Apogeo edizioni. Una visita estesa anche in altre città italiane e al Senato, dove ha preso parte a un forum aperto al pubblico. Un tour in cui al centro è sempre stata la sua missione: far nascere con dolcezza i bambini, perché - afferma - «è da un parto non rispettoso e violento che sperimentiamo per la prima volta la paura della separazione, dell'abbandono, della morte».

- Chi sono le donne che si rivolgono ai suoi centri di Bali e Banda Aceh?
«Sono donne povere che non possono permettersi di pagare la retta dell'ospedale. Se non lo fanno, non possono portarsi a casa il bambino appena partorito: posso testimoniare che non sono poche a subire anche violenze. Spesso ci dicono grazie perché non le abbiamo picchiate mentre si lamentavano durante il parto. È una cosa che negli ospedali accade, come succede che gli ambienti siano sporchi, e le donne povere subiscano ogni genere di maltrattamento. Le loro condizioni di salute, inoltre, sono precarie, soprattutto per l'impoverimento della dieta, che è esclusivamente a base di riso bianco, privo di ogni nutriente perché frutto della coltura intensiva imposta dalla "Rivoluzione verde". Da allora il riso riempie solo la pancia, ma non nutre, così le donne sono spesso anemiche, e incorrono in emorragie post partum. In tante muoiono per questo motivo. A Bali se ne calcolano 718 su 100mila, di cui la metà per malnutrizione. Cerchiamo di limitare le carenze somministrando delle vitamine di origine biologica, ma non è abbastanza. Inoltre sono molto frequenti le malformazioni fetali per le madri che lavorano nelle risaie e stanno in continuo contatto con l'acqua di coltura, dove si usano alte dosi di pesticidi».

- Come riuscite a curare la popolazione che si rivolge ai vostri centri?
«Non abbiamo molti mezzi, perciò cerchiamo di supplire con l'agopuntura, la medicina cinese, l'omeopatia e la fitoterapia tradizionale locale, che ci consentono di curare diverse patologie. Poi lavoriamo sulla prevenzione, educando ad avere un'alimentazione sana per quanto possibile, a prevenire l'Aids e l'alcolismo. È una realtà paragonabile a molte altre popolazioni povere, che non riescono ad accedere alla sanità occidentale perché non possono pagarla. In questo senso, recuperare i metodi efficaci della medicina naturale è utile nella cura e non pesa troppo economicamente».

- Lei combatte soprattutto per garantire un parto gentile ad ogni donna e la salute del nascituro. Per questo conduce una battaglia perché il cordone ombelicale non venga tagliato subito dopo il parto...
«È una scelta che pratichiamo da tempo. Finora ho fatto nascere più di 700 bambini e ho sempre atteso, una volta espulsa anche la placenta, almeno 20 minuti prima di procedere al taglio del cordone, ma ogni volta è accaduto che il bambino piangesse o diventasse cianotico, mentre in alcuni casi la madre cominciava a sanguinare. Diversi studi riferiscono invece che è meglio attendere fino a che il cordone smette di pulsare, un periodo in cui al neonato giunge ancora il sangue materno. In seguito sono bambini con una salute migliore e una maggiore quantità di ferro nel sangue. Mia nipote addirittura non ha subito alcun taglio chirurgico bensì il cordone si è staccato spontaneamente, cosa che accade tra i due e gli otto giorni. (L'Oms specifica infatti che la procedura fisiologica è il taglio del cordone ritardato o nessun taglio, mentre se avviene precocemente è una pratica invasiva non giustificata nel parto fisiologico, ndr). Ma anche l'allattamento al seno è importante: le donne che vengono al centro allattano tutte, mentre negli ospedali c'è una forte pressione per passare all'alimentazione artificiale. Così le famiglie povere si ritrovano a diluire molto il latte in polvere, perché costa, o a usare il latte di riso. Perciò ogni anno muoiono 100mila bambini per infezioni e gastroenteriti».

- A quasi tre anni dallo tsunami, qual è la situazione della provincia di Aceh, una delle più colpite?
«È una domanda difficile. Potrei dire che forse la situazione è peggiorata rispetto a tre anni fa. Passata la fase eroica, adesso è il tempo della lenta, faticosa ricostruzione. La gente è traumatizzata, le donne ancora guardano il mare sperando che i loro figli tornino indietro. La città di Banda Aceh è stata ricostruita bene ma nelle zone interne, dove vive il 90 per cento della popolazione, le condizioni sono ancora molto dure, non c'è lavoro, gli aiuti alimentari sono terminati. Le donne incinte soffrono spesso di pressione alta, per la dieta povera, e sono numerose le morti intrauterine. Per fortuna il processo di riappacificazione tra governo e ribelli sta funzionando: è da un bel po' che i fucili non sparano».

- Come si riesce ad essere pacifisti in una provincia che prima del disastro è rimasta a lungo isolata per la feroce guerriglia del movimento indipendentista Gam contro l'esercito di Giacarta?
«Anche prima dello tsunami Aceh era priva di strutture sanitarie: da noi venivano ogni giorno dei soldati per essere curati, ma non ho mai permesso a nessuno di entrare in clinica con le armi. Ho rifiutato ogni coinvolgimento sia con i ribelli sia con l'esercito, perché il nostro è un servizio per la salute di tutti. Questa scelta ci ha fatto ammirare da loro e così non ci sentiamo in pericolo. Anche quando ricevetti l'ordine da parte dell'esercito di circoncidere 40 bambini mi sono rifiutata. Ricordo che mi recai con mio figlio di 17 anni al comando: appena entrati lui disse "mia madre non può fare alcuna violenza sui bambini". Lo giustificò come una mia scelta religiosa, e non si permisero di costringermi a farlo».
Fabiana Bussola

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